Di papà amo ricordare
quella frase di un’intervista a Giovanni Minoli: "Mi dà fastidio che dicano che
sarei triste, perché non è vero".
È come lo dice che mi piace: sorridendo.
Non era triste nemmeno un po’.
Era introverso e tuttavia capace di essere
anche molto estroso, in particolare con noi bambini. Ci portava alla ruota
dell’Eur, in tutti i luna park delle città che visitavamo, a camminare in luoghi
impervi e su rocce a strapiombo e poi in barca, a vela latina, quella senza
deriva, nel mare di Stintino. Mia madre racconta che lui diceva sempre: se
potessi scegliere come morire vorrei che fosse in mare. Mamma aggiungeva
scherzando che più di una volta ci aveva pure provato. Affrontava il mare in
tempesta con il cugino Paolo. Per lui il mare era un’avventura e una sfida. Una
volta io e mia sorella Maria abbiamo fatto naufragio al largo dell’Asinara,
fortunatamente papà era avanti e ha visto che non lo seguivamo più: di certo non
saremmo potute rientrare a nuoto. Mi ha insegnato il mare. Un amore assoluto. E
ad andare in bicicletta quando ero ancora piccolissima. In un giorno solo, al
Foro italico. Io cadevo e lui diceva: devi risalire subito se no ti viene paura
e non ci vai più. Sono tornata a casa con le ginocchia sbucciate ma avevo
abbandonato definitivamente le ruotine. Sono sempre i padri che insegnano ad
andare in bici, no? Con lui abbiamo imparato anche a nuotare. Un giorno in
canotto. Ha detto, a me e ai miei fratelli: scommettiamo che se vi buttate
nuotate? Io vado in acqua, voi tuffatevi, se non ce la fate vi prendo io. Ci
aiutava nei compiti. Soprattutto storia e filosofia. E ci faceva capire se i
nostri fidanzati gli piacevano ma senza dirlo: non era necessario, si vedeva
molto chiaramente.
Abbiamo quasi sempre pranzato insieme. Almeno
quando poteva tornare a casa. Noi figli si parlava, spesso si litigava, lui
soprattutto ascoltava. E ripeteva: non urlate, non urlate, per carità. Non era
severo, era fermo. Abbiamo sempre fatto almeno quindici giorni di vacanze tutti
insieme. Luglio si andava con gli amici, ciascuno coi suoi. Ad agosto insieme
noi sei. Per anni abbiamo affittato a Stintino l’ultima casa del paese quella
della signora Speranza. Allora era proprio un borgo di pescatori. Ciascuno di
noi figli aveva il suo gruppo, si cresceva insieme un’estate dopo l’altra. Poi
nel ’77 non ci potemmo andare più. Erano gli anni del terrorismo, c’erano grandi
problemi di sicurezza. Ricordo un giorno a Roma, tornando a casa col Boxer, lo
trovai da solo fuori dalla porta senza nessuno della scorta. Mi hanno convocato
a scuola dei tuoi fratelli, mi disse, dobbiamo andare subito, portami tu.
Andammo in due sul motorino, aveva il sellino da uno, io stavo in piedi sui
pedali. Al ritorno sotto casa c’era uno spiegamento di forze: ma dov’è che sei
andato, in motorino con tua figlia da solo, siamo matti? Fu l’unica volta.
Era rispettosissimo delle regole della
sicurezza soprattutto perché non voleva creare problemi ai compagni che stavano
con lui: Menichelli, Franceschini, Righi, Alessandrelli. Siamo cresciuti con
loro. Comunque: dal 77 non fu più possibile andare a Stintino. Quella casa non
si poteva proteggere. Così per due anni andammo all’Elba, poi nel ’79 i miei
decisero di portarci in Unione Sovietica. Yalta, Leningrado, Kiev. Si andò in
nave passando dalla Grecia. Mi ricordo che all’arrivo affacciandosi dal ponte
papà disse: "oddio c’è Ponomariov". Ponomariov era il dirigente che si occupava
dei partiti comunisti non al governo. Ci portarono in una casa sul mare con un
bellissimo giardino. Papà ci disse, mi raccomando cercate di non parlare in casa
perché sarà piena di microfoni, parlate all’aperto. Mia sorella Laura aveva 9
anni, ci fece impressione questa storia dei microfoni ma tanto che potevamo dire
di segreto?, gli chiedemmo, lui sorrideva. Eravamo circondati dagli uomini della
sicurezza sovietica, ci seguivano dappertutto. Se il mare era mosso non volevano
che facessimo il bagno. Quando vedevano uno di noi figli entrare in acqua
arrivavano di corsa e facevano segno col dito: "Berlinguer, no". Ci chiamavano
tutti Berlinguer. Allora andavamo a protestare da mio padre, io avevo 18 anni
protestavo molto. E così lui veniva in acqua con noi: se entrava lui non
potevano dir nulla. Capeggiava la ribellione familiare. Faceva il bagno con noi
e i sovietici a quel punto dovevano spogliarsi ed entrare in acqua anche loro.
C’era un’interprete che si chiamava Nina, allegra e chiacchierona, ma quando
veniva a cena Ponomariov diventava taciturna e rigida, si cambiava, si toglieva
i pantaloni e si metteva la gonna. Nell’Urss non siamo più tornati. Papà sì per
i funerali di Andropov, quella volta che non volle mettersi il colbacco. L’anno
dopo finalmente potemmo tornare a Stintino. Dall’80, qualche anno ancora. Di
nuovo a veleggiare, papà era sempre al timone. Gli piaceva tantissimo il
maestrale forte, mamma non voleva che ci portasse quando c’era mare ma ormai
eravamo grandi e in barca ci andavamo da soli.
Il giorno che è partito per Padova siamo
andati all’aeroporto insieme. Lui a Genova, io in Sardegna. Ci siamo salutati
lì. Quando mi hanno chiamata la notte ho capito subito che doveva essere una
cosa molto grave: lui non avrebbe permesso che chiamassero a quell’ora. A
Stintino, a casa di Speranza, non siamo tornati mai più».
bianca
berlinguer